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Trim.le gen-mar 2009 n°1 Anno XI

Trimestrale d’informazione dell’Associazione culturale

 INDICE:

Sull’amicizia – kalyanamitta: Da:  Bhavanakrama “I prograssi nella meditazione”Primo Trattato”  2.3

Dhammapada  La felicità   –- 204 

Da  “L’amicizia spirituale  del ven. Ajahn Amaro   

Così è stato detto, 17 (II.7)                                                          

 Il Saggio            dal Dhammapada “Parole di Dhamma”

 Da “Versi Ispirati”                                   da: Udana  4 Meghiya 

Il donare e l’accogliere: la pratica del tonglen     da: J. Lief Fare amicizia con la morte  Ubaldini, p.88

Compassione o compatimento?           di Rodolfo Savini

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Sull’amicizia – kalyanamitta:

Quindi, dopo aver così compreso che assolutamente tutto il mondo è toccato dalle fiamme del dolore, colui che pensa: “come per me il dolore è spiacevole, esso è altrettanto spiacevole per gli altri” deve rivolgere la compassione verso tutti gli esseri.

A questo punto, colui che riflette in tal modo deve indirizzare  la compassione innanzitutto verso gli amici che in quel momento stanno sperimentando le varie sofferenze. Poi, non vedendo differenza tra gli esseri a causa della loro identità, egli così considera: “Nel samsara senza inizio  non c’è essere alcuno che non sia stato mio congiunto per centinaia di volte”, deve volgere la compassione verso le altre persone a cui non è legato da vincoli di amicizia o di parentela.

Quando la compassione diviene eguale verso queste ultime come verso gli amici, allora può essere volta nello stesso modo pure verso l’insieme dei nemici, ponendo mente all’eguaglianza degli esseri. E quando essa è perfettamente equilibrata anche verso i nemici così come verso gli amici, il praticante può indirizzarla via via verso tutti gli esseri nelle dieci direzioni.

E quando questa stessa compassione è uguale verso tutti gli esseri e fluisce spontanea sotto forma di desiderio di sradicare il dolore insorto, simile a quello che si prova di fronte a degli amati figlioletti sofferenti, essa è completamente sviluppata e prende il nome di Grande compassione, di mahakaruna.

Da:  Bhavanakrama “I prograssi nella meditazione”Primo Trattato”  2.3

 Come si deve praticare la compassione  Kamalasila

 

 

                                Dhammapada  La felicità   –- 204 

Una mente sana è il migliore guadagno.

L’appagamento è la risorsa più preziosa.

Un amico fidato è il migliore congiunto.

Una libertà senza condizioni

è la massima beatitudine.

Da  “L’amicizia spirituale”  del ven. Ajahn Amaro  

In un tipo di relazione tendiamo a rapportarci alle altre persone con un senso di separatezza, nell’altra ci rapportiamo con un senso di interezza.

La relazione di separatezza è imperniata su un profondo senso di ‘me’ e ‘te’, o di ‘sé’ e ‘l’altro’,. Ci rivolgiamo all’altra persona per soddisfare un bisogno che abbiamo e che è dovuto alla sensazione che manchi qualcosa in noi; e quell’altra persona sembra poter riempire quello spazio. Questo tipo di relazione o amicizia ha in sé una connotazione di dipendenza. Abbiamo bisogno che l’altra persona ci stia intorno per sostenerci, per farci sentire bene; oppure possiamo avere bisogno che quella persona ci stia intorno come nemico – un buon protagonista contro cui combattere!

Possiamo avere una relazione molto intensa, profonda quando siamo innamorati di qualcuno e sperimentiamo momenti di felicità, un senso di interezza o completezza. Ma questi momenti comportano anche sentimenti di desolazione e perdita, di solitudine e separazione. Anche una forte amicizia, come quella con un insegnante con il quale meditiamo o con il quale condividiamo una mutua comprensione del proprio mondo più intimo, può deluderci. Finché questa amicizia si basa su un senso di ‘me’ e un senso di ‘te’, e non si riconosce questa polarità, vi saranno sempre dolore e perdita.

 Nelle scritture si narra un episodio in cui Visakha va dal Buddha, dopo essere appena stata al funerale di un suo nipote. Visakha era una tra i migliori discepoli del Buddha. Aveva dieci figli maschi e dieci figlie femmine, e ogni figlio aveva a sua volta dieci figli maschi e dieci figlie femmine. Era quindi circondata da un oceano di nipoti, che adorava e da cui era adorata. Il Buddha vide che i suoi capelli e i suoi abiti erano bagnati e le chiese come mai. Lei rispose: “Signore, un mio caro, amato nipote è morto, per questo i miei capelli e i miei abiti sono bagnati”. Allora il Buddha le chiese: “Visakha, ti piacerebbe avere tanti figli e nipoti quanti sono gli abitanti di Savatthi?”. “Sì, signore”, rispose Visakha. “Ma, Visakha, quante persone muoiono ogni giorno a Savatthi?”. “Dieci persone, o signore, o nove, o otto, almeno una. Non c’è giorno a Savatthi in cui non muoia qualcuno”. “Dunque, Visakha, se tu avessi tanti figli e nipoti quanti sono gli abitanti di Savatthi, assisteresti ogni giorno ai funerali di tuoi discendenti. Staresti mai con gli abiti e i capelli non bagnati?”. “No, signore, ho abbastanza figli e nipoti!”. Poi il Buddha disse: “Coloro che hanno cento persone care hanno cento dolori” (Udana, VIII 8).

L’attaccamento che abbiamo verso i nostri cari è qualcosa di bello ma è anche causa di dolore. Ha in sé una spina, un’ombra, e questo è inevitabile. Se investiamo nel piacere che ci viene da queste relazioni, allora, quando c’è separazione, non possiamo evitare di provare un senso di perdita. Perciò un’amicizia spirituale di questo tipo presenterà sempre una certa assenza di equilibrio.

Ora, d’altra parte, abbiamo quella che mi piace definire una relazione di pienezza, che avviene quando la nostra associazione con gli altri non si basa affatto sul senso del sé. Essa, invece, si basa su un atteggiamento di abbandono, di non-egoità; di apertura piuttosto che di bisogno.

Questa qualità può essere sviluppata consciamente in varie maniere. Un modo è costituito dalla pratica devozionale rivolta a una figura idealizzata, come il Buddha, Dio, Gesù, Krishna o qualcun altro, magari una persona vivente, come un guru. L’atto di abbandono del sé, di donare se stessi in devozione a una figura divina, opera in virtù dell’energia della propria fede verso la divinità della persona. Ciò forma un’importante connessione tra sé e l’altro. Donando completamente se stessi al Divino, interiore o esteriore, sia attraverso un oggetto che lo rappresenti o attraverso una persona che ne incarni le qualità, possiamo produrre una relazione veramente spirituale. Quando la mente si apre a queste qualità, cominciamo a interiorizzare le qualità che queste figure incarnano. Sviluppiamo una gioia interiore e una libertà dentro il nostro essere, senza creare uno stato di qualsivoglia dipendenza.

L’altro modo di coltivare questa relazione di pienezza è attraverso il sentiero della meditazione e della saggezza. Adottando questo approccio, diventiamo più consapevoli di come creiamo il senso del sé. Lasciando andare il senso dell’io e del mio nella nostra attività quotidiana, ci impegniamo in un processo di auto-abbandono, senza che vi sia alcun oggetto, essere o divinità esterna che ci sostenga e ci rafforzi. Semplicemente attraverso l’investigazione, la contemplazione e la visione profonda (cioè usando il potere della mente) superiamo il senso del ‘sé’, permettendo al cuore e alla mente di aprirsi totalmente alla Verità.

Un’amicizia o una relazione, così coltivata, porta con sé libertà da dukkha, che è incompletezza e insoddisfazione. Se ci rapportiamo in questo modo agli altri, lasciando andare il sé e lasciando cadere il senso di ‘io’ e del ‘mio’, l’esperienza di stare insieme diventa un’esperienza di gioia e di gradevolezza, anziché di bisogno. Non c’è nessun senso di insicurezza, alienazione e solitudine nella relazione e vi è perciò una tremenda libertà. Possiamo sempre apprezzare la compagnia l’uno dell’altro e sostenerci l’un l’altro, ma non è più una nostra pretesa.                                                                                                   

Così è stato detto, 17 (II.7)                                          

Questo è stato detto dal Beato, è stato detto dall’Arahant, e così io ho udito: “O monaci, a proposito dei fattori esteriori, io non scorgo, per il monaco studente che non ha ottenuto la perfezione e vive aspirando al supremo affrancamento dai vincoli, nessun altro fattore così utile quanto, o monaci, la buona amicizia kalyanimittata. Il monaco che possiede un buon amico, o monaci, abbandona ciò che non è salutare e fa sviluppare ciò che è salutare”. Questo è il significato di ciò che il Beato ha proferito e, a tal riguardo, si dice: 

Che il monaco abbia un buon amico, nei confronti del quale provi rispetto e venerazione: mettendo in pratica i consigli dei buoni amici, con chiara comprensione e piena consapevolezza, egli può gradualmente ottenere la distruzione di tutti i legami.

Anche questo è il significato di ciò che il Beato ha proferito. Così io ho udito

Il Saggio            dal Dhammapada “Parole di Dhamma”

 76Spuntano doni del cielostando in compagniadi chi è saggio e perspicacedi chi con accortezza offredissuasione e consiglio

come guidando a un tesoro nascosto.

77

Che il saggio guidi gli esseri

via dall’oscurità

che offra orientamento e consiglio;

ne farà tesoro l’onesto

li rifiuterà lo stolto.

78

Non cercare la compagnia

di chi è sviato

guardati da chi si è guastato.

Cerca e gioisci della compagnia

di amici fidati sulla Via

di chi la visione profonda difende.

79

Abbandonarsi al Dhamma

porta serenità.

Il saggio vive nella perenne gioia

della verità dal Risvegliato svelata.

80

I costruttori di canali

convogliano il flusso dell’acqua.

Il fabbro forgia le frecce.

Il falegname lavora il legno.

Il saggio doma se stesso.

 83Chi è virtuoso è libero.Non indulge a discorsi futilisui piaceri dei sensi.Prova sia gioia che dolorema nessuno dei due lo possiede

.

84

Non per proprio interesse

né a favore di altri: mai

una persona saggia nuoce

nell’interesse della famiglia

del patrimonio o per guadagno.

A ragione costui viene chiamato

virtuoso e saggio.

85

Quelli che raggiungono l’altra sponda

sono pochi.

I più vagano avanti e indietro, senza fine

su questa sponda

non arrischiandosi al viaggio.

86

Anche se è difficile attraversare

il burrascoso oceano della passione

chi vive in accordo

con il vero insegnamento della Via

raggiunge l’altra sponda.

87

Mirando all’obiettivo della liberazione

il saggio abbandona l’oscurità

e ha cara la luce

si lascia alle spalle

la sicurezza meschina

e cerca la libertà dall’attaccamento

 

 81Come una solida roccianon è scossa dal ventoimperturbato è il saggiodalla lode e dal biasimo.82

All’udire il vero insegnamento

il cuore ricettivo

si fa sereno

come un lago, profondo, limpido e silente.

 .88Il desiderio di libertàè cosa ardua e rarama il saggio continuerà a cercaredistaccandosi da tutto ciò che si frappone

purificando il cuore e la mente.

89

Liberati dal desiderio

non soggiogati dalla comune avidità

quelli che si accordano con la Via

conoscono la meraviglia

del non attaccamento

e pur dimorando nel mondo

luminosi risplendono.

 

Da “Versi Ispirati”                           da: Udana  4 Meghiya 

O Meghiya, questi sono i cinque fattori che portano a maturazione  la liberazione della mente ancora immatura.

O Meghiya, da un monaco che ha un amico devoto al bene, che è incline alle persone buone, ci si deve aspettare che sia dotato di moralità, che viva secondo le regole disciplinari, che eviti anche la più piccola delle mancanze seguendo una condotta appropriata e avendo corretti mezzi di sussistenza.

O Meghiya, da un monaco che ha un amico devoto al bene, che ha compagni devoti al bene, che è incline alle persone buone, ci si deve aspettare che pronunci, con piacere, senza problemi o difficoltà, discorsi sobri, che aiutano ad aprire la mente, che conducano al completo disincanto, alla mancanza di attaccamento, alla cessazione, alla pacificazione, alla perfetta conoscenza, al risveglio e al nibbana. Egli farà discorsi che riflettono il suo non essere ossessionato dai desideri, discorsi che riguardano il contentarsi di poco, la vita eremitica, la castità, il mettere in atto l’energia, la moralità, la concentrazione, la saggezza, la liberazione, la conoscenza e la visione della liberazione.          

O Meghiya, da un monaco che ha un amico devoto al bene, che ha compagni devoti al bene, che è incline alle persone buone, ci si deve aspettare che viva con risoluta energia. Per abbandonare gli stati mentali non salutari, egli sarà vigoroso, dotato di un’energia stabile, e peserverà negli stati mentali salutari.

O Meghiya, da un monaco che ha un amico devoto al bene, che ha compagni devoti al bene, che è incline alle persone buone, ci si deve aspettare che sia saggio, dotato di una saggezza nobile e penetrante del sorgere e dello svanire, saggezza che porterà alla completa fine della sofferenza.

Il donare e l’accogliere: la pratica del tonglen

                      da: J. Lief Fare amicizia con la morte  Ubaldini, p.88

Anche la malattia è una buna occasione per praticare il tonglen (prendere e lasciare), assorbendo il male che ci affligge ed emanando il nostro desiderio di guarire. Una mia amica soffrì a lungo di un ricorrente tumore al seno, che alla fine si diffuse in tutto il corpo. Combattendo contro la malattia, aveva preso in un primo tempo l’abitudine di visualizzare che nella fase dell’inspirazione assorbiva una pura e luminosa energia salutare, mentre nell’espirazione emanava il tumore, minaccioso e oscuro.

Cercava così di liberarsi dal cancro sostituendolo con una buona condizione di salute. Quando però parlò della sua pratica con Trungpa Rinpoche, il lama, molto preoccupato, le disse che stava facendo esattamente il contrario di quello che doveva. Peggiorava le cose non solo per se stessa, perchè lavorava sul tumore basandosi sulla sua non accettazione, ma anche per gli altri, perchè proiettava su di loro la sua negatività. Il lama le suggerì quindi di praticare il tonglen. In modo sorprendente, una volta che la mia amica mutò la sua pratica, le sue condizioni si stabilizzarono, ed ella visse volto più a lungo di quanto tutti si aspettassero. Durante questo periodo di tempo rubato alla morte, riuscì a compiere svolte decisive nella sua comprensione della vita e nel suo rapporto con la fine della vita stessa.

(nota: prendere e respingere/dare: anzichè  prendere ciò che desideriamo – la salute e respingere ciò che detestiamo – la malattia, si attua un capovolgimento per cui si prende ciò che detestiamo e si invia agli altri ciò a cui aspiriamo)

Compassione o compatimento?           di Rodolfo Savini 

Mi riesce difficile, nella mia meditazione, non essere un ipocrita laddove coltivo il mio voler bene, di amicizia (metta)  e il mio desiderio di prendermi cura, di voler sostenere,  di compassione (karuna).

E’ relativamente facile sedere in raccoglimento, anche profondo e intenso, e trasmettere benevolenza e compassione a chi ne ha bisogno.                    

 La forza della concentrazione può meraviglie, ma la “mia” forza di concentrazione può fare questo? Se avverto che ancora la mia  concentrazione non ha l’incisività di tagliare lo spazio e giungere dove il mio cuore la rivolge, allora devo aver chiaro che è solo un compatimento e come tale serve solo a mettere la mia coscienza a posto con se stessa. Riposo tranquillo  ritenendo di aver fatto ciò che serviva.

Nell’intimo di questa incapacità radicale a condividere vi è tutt’al più un auspicio che si accontenta di essere ruminato nel proprio cuore, ma che rimane lì soffocato dall’inamovibile egoità che non va al di là della stanza in cui siedo, del tappetino che riscaldo..

Perchè mi è così difficile fare quel passo che “va oltre”, esprimere quell’energia che si prende cura e nutre?

Ecco ciò che serve. Essere dentro di me laddove la vitalità prorompe chiara e splendente ed essere al contempo fuori di me, lavando il pigiama di chi è costretto a letto, preparando un pasto la casa a chi ritorna muto dalla visita al proprio familiare.

Il mistero non è quello della compassione è quello della solidarietà.

La meditazione tibetana del tonglen è quella che sento capace di aiutarmi a fare il passo al di là del compatimento dell’ “altro”. Avverto che la mia compassione lascia l’altro solo con la propria sofferenza e che serve qualcosa in più. Chi di noi ha il coraggio di coltivare la meditazione del tonglen? Chi di noi è capace di percepire il dolore dell’altro, portarlo dentro di sè, accoglierlo, viverlo come proprio e trasformarlo al fuoco della propria consapevolezza amorevole per poi donarlo rinnovato come fiducia in una condivisione senza lacerazione? Constato che non posso far nulla per quella persona, forse l’infermiere può far di più, forse il medico può essere più necessario, ed io? Solo un testimone di un’incapacità radicale che trova molteplici vie per rassicurasi.

Ho la conferma che “tutto è dolore”: e mi sono messo la coscienza in pace. Anzi, l’altro mi aiuta a rafforzare tale pregiudizio, alleggerendo il peso della rassegnazione. E’ vero che nell’insegnamento del Buddha quella sofferenza può essere rielaborata riscoprendola come la sofferenza di ogni cosa che nasce e che come tale è destinata a perire. Ma sento che la sofferenza non va neanche giustificata come inevitabile e tale da lasciare che le cose siano così come sono.

Riesco con l’amicizia e la solidarietà a compiere quel passo in più con cui riconoscere la tremenda sofferenza di chi ho davanti, non diversa dalla mia stessa sofferenza e trovare al contempo quell’entusiasmo che mi spinga a riconoscere che nel mondo condannato a morire c’è anche il mondo destinato a nascere?

Davanti alla radicale incapacità di cambiare il corso del karma, degli eventi che mi hanno condotto qui dove sono, al cospetto di una sofferenza che toglie ogni parola mi accorgo che allo stesso tempo c’è l’impegno strenuo, come è possibile, a guarire, a ridare senso ed entusiasmo alla vita.

E’ vero che il karma ci conduce alla sofferenza e alla morte, ma questo è vero se c’è ignoranza. Ma se la nostra compassione e la nostra benevolenza, coltivate nella nostra stanza, non riescono a rendere evidente che c’è anche un karma che aiuta a ritrovare gioia e serenità, allora è meglio lasciar perdere tutto e accogliere l’implacabilità del destino.

Tra il flusso del samsara, della morte e rinascita, avverto che consapevolezza e benevolenza vogliono smascherare le illusioni che da un lato soffocano e spengono e dall’altro creano e illudono inducendo il Buddha a formulare la prima Nobile Verità:  “tutto è dolore”.

Faccio bene a coltivare compassione e benevolenza, è sempre meglio che alimentare gli opposti, ma in realtà sto solo scaldando il cuscino della mia meditazione, occorre fare anche quel passo che la meditazione tonglen vuole che faccia. Avere il coraggio di dire: voglio vivere io la tua sofferenza e donarti la mia serenità.

Lì veramente accade il miracolo di accorgersi che la tua sofferenza e la mia gioia, che la tua gioia e la mia sofferenza ci insegnano che non c’è nè l’una nè l’altra. Che non c’è nè la paura del perdere nè lo stordimento dell’avere, ma c’è l’essenza del mio esserci, del tuo esserci.

 

Che la nostra reciproca compassione

possa innescare la miccia della benevolenza.

Che la nostra reciproca benevolenza

possa innescare la miccia della compassione.

Che la nostra compassione e la nostra benevolenza

possano innescare la miccia  della fiducia.

 

Pratica meditativa alla PAGODA:

Ogni domenica dalle 16.00 alle 18.00. La prima domenica del mese l’incontro prevede una pratica di yoga. La terza domenica del mese vi sarà un intensivo dalla mattina alle 10.30 fino alle 18.30.

TELEFONARE per CONFERMA: 3293715815

Per sostenere la Pagoda: c/c postale n° 94381084 La Pagoda Loc. Quercia Grossa 33, 52016 Castelfocognano – offerta libera / amici:10e / soci: 60e

Il presente scritto è riservato ad uso privato dell’Associazione Culturale “La Pagoda”.  Non è commerciabile.

Non costituisce pubblicazione

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