Trimle ott – dic 2010 n° 4 Anno XII
Trimestrale n° 4 Anno XII ott-nov-dic 2010
INDICE:
La Pagoda: … in attesa della riapertura di M. Foglini
Perché la meditazione da Thich Nhat Hanh
Non avere paura! dal libro omonimo di Cheri Huber
Dal dubbio la fiducia di Rodolfo Savini
L’impedimento del dubbio da J.Goldstein e J. Kornfield
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La Pagoda: un po’ di storia…
… in attesa dell’imminente riapertura
di Massimiliano Foglini
L’Associazione Culturale “La Pagoda” si è costituita ufficialmente l’11 ottobre 1998 per occuparsi della gestione materiale e religiosa del Tempio omonimo situato a Pieve a Socana, in provincia di Arezzo. Le attività che l’Associazione svolge derivano tutte dall’instancabile attività di un precursore della diffusione del buddhismo in Italia: l’ingegner Luigi Martinelli (1911-1996).
Nato ad Arezzo, appassionato di culture orientali, Martinelli aderisce, primo in Italia, alla Buddhist Society di Londra, e diventa corrispondente attivo della Buddhist Publication Society di Kandy (Sri Lanka). Nel 1974 costituisce a Firenze l’Associazione Buddhista Italiana (che aveva iniziato informalmente le attività negli anni 1960) e per quindici anni a partire dal 1967 pubblica la rivista Buddhismo Scientifico. Nel 1972, a Pieve a Socana, nel Comune di Castel Focognano in provincia di Arezzo, costruisce il primo tempio buddhista italiano caratterizzandolo con una cupola a pianta ottagonale ed impreziosendolo con dei mosaici rappresentanti gli insegnamenti del Buddha.
Fra i molti ospiti che la Pagoda ha accolto basta citare il Venerabile Nyanaponika Thera del quale Martinelli traduce e pubblica il libro: “L’essenza della meditazione buddhista”, e nel 1992, per diretto intervento della Fondazione Maitreya, la Pagoda diviene residenza di un monaco della tradizione del Buddhismo Coreano Zen, Tae-Hye sunim di origine finlandese.
E’dopo la morte di Martinelli e la decisione di Tae-Hye sunim di fondare un monastero a Lerici (il Musang Am – il Tempio della ‘Non Forma’) che la nostra Associazione si forma e si impegna per ben 12 anni prima di ottenere dal Comune il condono del Tempio, ufficialmente avvenuto nel dicembre 2008 (documento necessario affinchè la sig.ra Bianca Biozzi, moglie ed erede dell’ingegnere, potesse donarcela). Nel febbraio 2009 la signora Bianca Biozzi firma l’atto d’obbligo con cui si impegna a non cambiare la destinazione d’uso dell’edificio, che per più decenni dovrà preservare le sue radici culturali, religiose e sociali; inoltre il 5 marzo 2009, dal Notaio Pane di Poppi, firma la donazione del Tempio e del bosco retrostante alla Associazione ‘La Pagoda’, che precedentemente, il 18 marzo 2008, era stata riconosciuta come ONLUS, Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale. (prot. 19073 del 6.5.2008).
Dopo la donazione sono iniziati i lavori per la completa ristrutturazione: la cupola esterna, il tetto, l’impianto elettrico, l’impianto idrico, l’impermeabilizzazione esterna, la fitodepurazione, la piastrellatura. Bisognosi di restauro sarebbero i mosaici interni della cupola ma non sempre le possibilità riescono a sostenere le necessità. Siamo comunque riusciti a … camminare e ora, sul finire del 2010, l’impegno dedicato alla ristrutturazione sta dando i propri frutti. Non manca molto infatti alla riapertura del Tempio a chiunque voglia condividerne … la storia a venire.
Perché la meditazione dal libro di Thich Nhat Hanh
“Il piccolo libro della consapevolezza” Astrolabio
Molti conoscono la storia dell’uomo a cavallo che corre a tutta velocità, come per andare a fare cose molto importanti. Un’altra persona, sul ciglio della strada, lo vede e gli grida: “Dove stai andando?”. L’uomo sul cavallo si gira e risponde: “Non lo so, chiedilo al cavallo”.
Questa non è la storia di quella persona soltanto, è la storia di ognuno di noi, siamo tutti cavalieri che non riescono a fermare il cavallo e non sanno dove stanno andando: è il cavallo che decide.
In ciascuno di noi c’è un cavallo che corrisponde alla forza dell’abitudine.
Capita che non si voglia dire una certa cosa, eppure la si dice lo stesso: quello è il cavallo; capita che non vogliamo fare una certa cosa, eppure la facciamo lo stesso, è più forte di noi: quello è il cavallo, è la forza dell’abitudine.
La pratica è riuscire a identificare questa forza dell’abitudine ogni volta che emerge, sorriderle e dirle: “Caro cavallo, cara forza dell’abitudine, so che sei tu, sei una mia vecchia amica”.
Praticare la meditazione significa utilizzare un certo tipo di energia che è disponibile in noi. Questa energia che, come luce, ci permette di vedere, è chiamata energia della piena consapevolezza. Quando si cammina di notte senza un lume si può inciampare e cadere, e quando non riusciamo a vedere rischiamo di essere sopraffatti dall’incertezza e dalla paura. Ma se qualcuno ci fa luce, la paura svanisce. La piena consapevolezza è la luce che è dentro di noi e che ci permette di vedere le realtà interiori come le sensazioni e le percezioni e di sapere cosa ci succede.
Abbiamo tutti dentro di noi questa energia e lo sappiamo.
Quando c’è piena consapevolezza c’è anche un’altra cosa, la concentrazione.
Quando accendiamo una lampada, la luce si diffonde su molte cose, ma se vogliamo vederne una soltanto, ci vuole qualcosa che, come un paralume, concentri la luce su un unico punto.
Quando poniamo l’attenzione e la nostra piena consapevolezza solo su quell’inspirazione e sull’espirazione, la mente è concentrata soltanto su quell’inspirazione o quell’espirazione.
Tra il corpo e la mente c’è il respiro, e grazie a questa pratica la mente e il corpo si uniscono. Spesso durante la giornata non sono uniti: il corpo è qui, ma la mente può essere da tutt’altra parte, nel futuro, nel passato o trascinata via dalla rabbia, dalle preoccupazioni o dai progetti. Ciò viene descritto come dispersione mentale, ovvero l’esatto opposto della concentrazione.
La respirazione consapevole è un miracolo: in uno o due respiri riunisce il corpo e la mente nel qui e ora.
La pratica del sedersi e respirare può anche essere descritta come la pratica della libertà e della stabilità, perché quando siamo capaci di dimorare nel momento presente siamo liberi dalle preoccupazioni per il futuro e dai rimpianti del passato, diventiamo stabili, così le preoccupazioni, l’ansia e la paura del presente non ci trascinano più via.
Non avere paura! dal libro omonimo di C. Huber-Oscar Mondadori
L’inarrestabile ricerca della felicità è una definizione della sofferenza. La risoluta fuga dal dolore un’altra.
Conoscevo una donna convinta che la sua felicità consistesse nello sposare un uomo ricco. Niente le interessava eccetto gli uomini ricchi e il suo mondo divenne piccolo ed estremamente infelice. Il nostro mondo si restringe quando siamo paralizzati dalla paura di fare degli errori, di fare qualcosa di sbagliato. Ma se semplicemente facciamo un passo e vediamo che cosa succede, il nostro mondo si apre un pochino. Allora, possiamo fare un altro passo. Ogni passo amplia la nostra visuale; ogni cosa che facciamo ci rivela qualcosa. Come dicono gli antichi Maestri Zen: quando ci impegniamo a prestare attenzione, ogni cosa ci illumina.
Un’amica mi diceva spesso: “Ho paura di non trovare un lavoro”. “Ho paura di restare sola”. “Ho paura di restare senza soldi”. E la lista si allungava e si allungava. Cercavo di aiutarla ad avvicinarsi a ogni paura, finché non ho capito che stavamo tentando di entrare in contatto con problemi che non esistevano. Il ritornello era “ho paura”, e poteva essere seguito da un’infinita serie di difficoltà puramente immaginarie.
Solo quando ci concentriamo sul PROCESSO anziché sul CONTENUTO cominciammo a rivolgerci a quello che realmente stava succedendo.
Potremmo parlare per ore, giorni, per una vita intera, di quello che non va, di quello che potrebbe succedere, di quello che non funzionerà. Non fatelo. Piuttosto, fate un passo. Guardatevi attorno per capire dove siete, e scoprite quale sarà il vostro passo successivo. Fate quel passo, vedete dove siete, e il prossimo passo si rivelerà. Forse è all’indietro verso il punto da cui siete partiti… non potete saperlo, finché non ci arrivate. Ogni passo è chiaro solo guardato da dove siete in quel momento; il passo “finale” non è evidente all’inizio, ma solo dal passo immediatamente precedente. Ogni passo fa parte del processo di apprendimento, e siccome, qualsiasi cosa facciate, imparerete qualcosa… non c’è modo di sbagliare.
Semplicemente non c’è alcuna RAGIONE per cui avere paura.
Sedersi da qualche parte pensando a cosa non andrà per il verso giusto equivale ad uno scienziato che decida il risultato di un esperimento in anticipo, non c’è modo di imparare alcunché.
Se vogliamo veramente sapere come qualcosa effettivamente sia, o cosa sia possibile, ci dobbiamo tuffare. Forse non troviamo quello che pensavamo di trovare, ma qualcosa troveremo.
La vita è un processo creativo, e la creatività richiede il TOTALE ABBANDONO di un TUFFO compiendo il passo successivo consapevoli del fatto che impareremo qualcosa.
Non è possibile fare errori.
Ci aggrappiamo all’idea di sbagliare per mantenere l’illusione di poter sapere quel che non si può sapere, quello che non è ancora successo.
Dal dubbio la fiducia di Rodolfo Savini
Ognuno di noi può essere un soggetto attivo e promotore di dubbi, la nostra capacità di dubitare alimenta quell’atteggiamento critico che ci spinge a “mettere in dubbio”. In questo senso è la fonte da cui può emergere la libertà di giudicare, anche se in questo caso, proprio con il giudizio che ne deriva, ricadiamo nella trappola della certezza.
Convince di più parlare di libertà dal giudizio, una libertà cioè che non si accontenta della prima risposta. Questa libertà dal giudizio è qualcosa di nuovo. Permette alla nostra mente, propensa a rielaborare “meglio” i dati di cui dispone, di scoprire ciò che non le è abituale. Se così non fa, la nostra attività mentale corre il rischio di rendere questa virtù un gioco intellettuale che si ripiega su se stesso. Con atteggiamenti di questo tipo si rimane intrappolati nel conosciuto. La mente non riesce ad avvalersi delle proprie potenzialità critiche per “protendersi” verso il non conosciuto, verso una vera scoperta.
Questa attitudine al nuovo, alla scoperta ci pone al cospetto di un’altra faccia del dubbio. Non sono più “io” il soggetto che domanda, che “mette in discussione”, ma divento io stesso vittima del mio dubitare. Da una domanda scaturiscono molteplici domande e una curiosità matura non si sente appagata dalla prima risposta che capita.
Con l’ampliarsi delle domande si moltiplicano anche i dubbi e la mente, che è stata la prima sorgente di quel punto interrogativo, si trova invasa dalla vastità dell’incertezza. Dapprima era sicura di sè, poi si trova immersa in acque dove non si tocca. I dubbi si moltiplicano, lo stesso avviene per le nostre insicurezze e così per le nostre paure.
Quando ci si muove nel quotidiano ci accontentiamo dello scontato, senza porci tante domande, ma non siamo appagati e inavvertitamente alimentiamo quell’onda di piena. Ci manca la medicina, non sappiamo come curarci dalle certezze che si sgretolano, dai giudizi che si logorano e dalle loro conseguenze. Una buona medicina la si ricava elaborando positivamente le nostre intuizioni. L’intuizione è come un piccolo spillo che riesce a penetrare oltre il ribollio di questo spazio oscuro che noi stessi abbiamo creato.
Senza questo sostegno, i dubbi si gonfierebbero senza freno e la mente verrebbe assorbita ancor più in questo ginepraio di valutazioni contraddittorie. Il rischio è allora quello di “bloccarsi”, la scena si spegne con il sipario che cala, l’espressività delle piccole cose timidamente si ritrae. Restiamo lì muti al cospetto di una realtà che non sappiamo più leggere.
Questo dubbio senza intuizione è un motore che vorrebbe esprimere la propria potenza ma il freno è tirato, mille freni sono tirati e ciò che rimane è un fumo maleodorante. Ci si “abitua” anche a questo e paradossalmente riusciamo, senza saperlo, a “farcelo” piacere come il minore dei mali. L’area della depressione è l’area di assenza di senso, nulla ci parla, nulla ci ascolta e la nostra voce è senza parole, piagnucola compassione, o meglio, compatimento, non si sa nè si vuole fare nulla. Manca la scintilla dell’intuizione.
Questa terra bruciata è sempre accanto a noi, è la nostra cattiva ombra, in cui il più delle volte si viene risucchiati. Per uscirne fuori ci serve una piccola cosa che “ridia” senso. Talvolta la troviamo, ma siamo così abili e la bruciamo subito senza apprezzarne il profumo.
E’ il profumo dell’entusiasmo che riesce a dare senso alla nostra esistenza.. Più è irruente più sembra un forte sostegno, ma in realtà accade l’opposto. Le passioni sorgono e scompaiono come lampi e poi siamo da capo. L’entusiasmo può essere una fiammata di vitalità ma la sua irruenza non ci permette facilmente di capirne il messaggio. Quel fuoco ne accende un altro e così via ed ecco l’ansia di ricercarlo, la possessività nel trattenerlo, la rabbia per chi lo minaccia, la paura che ci avvolge.
In questi momenti di punta non c’è il dubbio, anche se appare dietro l’accecamento di queste emozioni. Ma perchè mai quell’entusiasmo, anzichè gonfiarsi e offuscare la nostra mente, non riusciamo a trasformarlo nella solidità di una tranquilla passione, silenziosa eppure necessaria per farci crescere nella serenità? E’ perchè la nostra sensibilità sa interpretare gli stimoli più prepotenti ma non ha accorra appreso a leggere nelle piccole cose. Potrebbe esserci di aiuto una “tranquilla” passione* più silenziosa, meno ansiosa e più rispettosa del tempo. Una passione tranquilla è un compagno che cammina col nostro stesso passo, che dà tempo all’entusiasmo di crescere e di maturare. Le passioni irruenti appassiscono rapidamente e rimangono come una mina inesplosa nel nostro ricordo. Il frutto della tranquilla passione non è nel ricordo, è nella progettualità, e nel procedere passo a passo, come un elefante e allo stesso tempo con la noncuranza di una foglia nel ruscello.
La tranquilla passione è un soffio leggero che gonfia la vela, è nella sua natura, ma non sappiamo riconoscerla, apprezzarla e coltivarla. E’ una ricchezza, è il tesoro di cui ogni cellula del nostro corpo mantiene il ricordo. E’ modesta, non ama mettersi in mostra, ma è pronta ad assolvere al proprio compito, a sorreggere una coscienza che si fa sensibile alla fragilità dei propri giudizi. Non ama la prepotenza e l’arroganza di quell’ “io” che rifiuta l’immersione del mare del dubbio esistenziale. Non ama l’invidia di chi, incapace di affermare il proprio io, frustrato dal fallimento, si ribella con l’unica arma che gli è rimasta: la violenza gratuita. Non ama chi nel dubbio, pur soffrendo, non sa, non vuole o teme di uscirne.
La tranquilla passione ama chi si accorge, vive e sperimenta, la fragilità di questo “io”. Infatti è proprio quello stesso “io” che ci ha privati della naturalezza dell’animale, che può aiutarci. Una volta immerso nel dubbio, nella ragnatela dei dubbi, nella fragilità radicale, quell’ “io” può purificarsi dai giudizi che incasellano e spengono la luce di ciò che lo circonda. Può riemergere. Può sentire indelebile sulla sua pelle l’odore di quel freno bloccato diventare pian piano un profumo.
In questo modo la nostra esistenza è un grande e avventuroso viaggio, un viaggio sconosciuto eppure appagante. Sentiamo che lo dobbiamo affrontare, sappiamo che ci attende. Non posso vivere ignorando le domande, non posso vivere senza dubitare. Il cammino interiore ci aiuta ad emergere con il salvagente della fiducia. La fiducia che la nostra mente ha in sè il potenziale vitale dell’intuizione. L’intuizione accende l’entusiasmo. L’entusiasmo ci attiva. E laddove con il peso del nostro ego eravamo sprofondati, da lì con la fiducia possiamo riemergere, con quella leggerezza che sa fare del dubbio la propria certezza.
* è questo il titolo di un libro di Corrado Pensa edito da Ubaldini
L’impedimento del dubbio
da J.Goldstein e J. Kornfield: “Il cuore della saggezza”- Ubaldini Editore
Quando lavoriamo sullo spirito, possiamo addirittura arrivare a scoprire che all’interno di ogni difficoltà è sepolto un tesoro. Le difficoltà del dubbio possono condurre alla scoperta del Grande Dubbio (…).
Il sentiero del risveglio è il nostro grande e mirabile lascito in quanto esseri umani. Spesso ci sembrerà difficile, e a volte quasi impossibile. Ma come scrive Thomas Merton: “Il vero amore e la preghiera si apprendono nell’ora in cui l’amore diviene impossibile e il cuore si fa pietra”. Se ce ne rammentiamo, le difficoltà che incontriamo nel corso della pratica diventano, esse stesse, parte della pienezza della meditazione, un luogo di apprendimento e di apertura del cuore. Sono il succo, una parte integrante di ciò che ci rende vivi. E lavorare su questi impedimenti ci conferirà una visione profonda, e una grande capacità di comprensione.
Lo scopo della pratica, dunque, non è quello di creare un particolare stato mentale, che sarebbe sempre temporaneo, quanto quello di lavorare direttamente sui più basilari elementi della nostra esperienza, su tutti gli aspetti del nostro corpo e della nostra mente, e pertanto di riuscire a discernere il modo in cui veniamo intrappolati dalle nostre paure, dai desideri e dall’ira, per apprendere direttamente la capacità di essere liberi. Se lavoriamo sugli impedimenti, questi arricchiranno la nostra vita: sono stati infatti definiti concime per l’illuminazione, e qualche maestro ne parla come delle “malerbe della mente”: le malerbe, cioè, che dobbiamo sradicare e seppellire accanto alla pianta per nutrirla. La nostra pratica, insomma, consiste nel servirci di tutto quello che si manifesta dentro di noi, per favorire lo sviluppo della comprensione, della compassione e della libertà”.