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Trimle gen- mar 2011 n° 1 Anno XIII

 

Trimestrale  n° 1  Anno XIII  gen-feb-mar  2011

 INDICE

Sulla pazienza

Brahmavihara  di Massimiliano Foglini

La disciplina crea il bene e il male  di Gianluca Del Cucina

Daigu Ryokan – Poesia

Meditazione e Disciplina    da Krishnamurti

Mi serve qualcosa   Rodolfo Savini

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Sulla pazienza

Che grande qualità la pazienza! E che eccellente opportunità per svilupparla la riapertura del nostro Tempio. Sei mesi, dodici mesi, diciotto mesi…. prima c’è da finire un lavoro, poi manca un permesso, una cosa è da rifare, non c’è un’autorizzazione: tutte opportunità per accrescere la pazienza fino a scoprire che non è vero che ha un limite. La pazienza va oltre il nostro disappunto, oltre le momentanee arrabbiature, oltre le incomprensioni, l’unico limite che può avere è quello che gli diamo noi.

La pazienza è un’ottima zattera che può traghettarci, oltre ogni difficoltà, fino al giorno dell’inaugurazione del Tempio prevista per il Vesak di giugno (Vesak: festa buddhista nella quale si celebra la nascita, l’illuminazione e la morte del Buddha). Ma prima di arrivare a quella data dobbiamo incontrarci per l’assemblea annuale della nostra associazione. Grazie alla disponibilità del Centro Mandala (via Santa Maria delle Grazie, 59/A – Arezzo), domenica 30 gennaio ci incontreremo per una giornata di meditazione con inizio alle ore 9,00, una pausa per il pranzo e meditazione sino alle ore 16,30, ora in cui è prevista l’assemblea. L’invito è aperto a tutti. Con l’occasione sarà possibile associarsi e partecipare all’elezione del consiglio direttivo. Nel frattempo… pazienza!

Brahmavihara  di Massimiliano Foglini

Il termine brahmavihara viene tradotto dalla lingua ‘pali’ con ‘dimora divina’ e tradizionalmente di queste dimore ce ne sono quattro: la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia empatica e l’equanimità. Ma prima di capire cosa sono è essenziale comprendere dove sono.

Abbiamo detto che sono dimore, stanze, luoghi in cui abitare; ecco, le dimore divine sono degli spazi interiori che abbiamo dentro di noi, dei luoghi che già esistono in noi, forse non sappiamo come entrarci ma la pratica di meditazione serve anche a questo: a riconoscere questi spazi interiori, ad entrarci e a dimorare in essi.

Achaan Munindo li chiama ‘ spazi di trasformazione’, ‘luoghi dentro di noi dove possiamo andare a lavorare’: “E’ come quando dovete cucinare. Avevamo un novizio qui che faceva una meravigliosa torta al formaggio. La preparava in cucina, perchè è quello il posto in cui fare la torta al formaggio. Non la faceva nel laboratorio; nel laboratorio si svolge un altro tipo di lavoro. E’ molto utile sapere che genere di lavoro fare e in quale spazio”. (Achaan Munindo – La via del benessere – Ubaldini Editore)

Avviciniamoci quindi a queste nostre ‘stanze interiori’, apriamone la porta, entriamo dentro e iniziamo a lavorarci.

Nel ‘laboratorio’ della gentilezza amorevole’ il materiale grezzo con cui lavorare è la malevolenza, quindi ogni volta che sorge in noi la malevolenza abbiamo l’opportunità di entrare in questo laboratorio per lavorarla, trasformarla. Quando sorge la rabbia anzichè farci soprassedere, possiamo prenderla per mano ed entrare in questa stanza, sedersi insieme a lei, sentire dove fa presa nel nostro corpo e pronunciare dentro di noi: CHE IO POSSA DIMORARE NEL BENESSERE, NELLA LIBERTA’ DALLA MALEVOLENZA. Ed ecco che volta dopo volta sapremo come lavorare con i nostri disagi, ottimi materiali per sviluppare ‘metta’!

Nella ‘stanza’  della compassione si lavora con la tristezza, la perdita, il senso d’isolamento: CHE IO POSSA ESSERE LIBERO DA OGNI SOFFERENZA. Il primo passo da compiere in questo ‘laboratorio’ è riconoscere il dolore anzichè cercare di evitarlo o rimuoverlo, mentre il secondo passo è l’aprirsi alla sofferenza, poco alla volta, secondo le nostre possibilità del momento. Scrive Sharon Salzberg nel suo libro ‘L’arte rivoluzionaria della gioia’: “La sofferenza è una parte intrinseca dell’esistenza e di certo non sparirà dalla vita degli esseri, indipendentemente da quanto desideriamo che ciò avvenga. Quel che stiamo facendo attraverso la meditazione di compassione è purificare e trasformare la nostra relazione con la sofferenza, che sia la nostra o quella degli altri. Essere capaci di riconoscerla, di aprirci ad essa e di risponderle con tenerezza ci permette di unirci con tutti gli esseri e comprendere che non siamo mai soli”.

Se paragoniamo noi stessi agli altri, se abbiamo una mente giudicante, se ci svalutiamo, proviamo invidia, se proviamo noia, se siamo avidi… ecco che conviene entrare nel laboratorio della gioia compartecipe. POSSA LA TUA FELICITA’ E BUONA SORTE NON LASCIARTI. Iniziamo da noi, cerchiamo di lasciar andare il senso di colpa che accompagna l’essere felici e la paura che qualcuno possa interrompere la nostra felicità. Coltiviamo la felicità facendo del bene, aspirando al benessere. Riusciamo a percepire che la felicità altrui è la nostra felicità? Desideriamo veramente che tutti gli esseri siano felici? Riconosciamo la bellezza di ogni cosa?

CHE TUTTI NOI POSSIAMO ACCETTARE LE COSE COSI’ COME SONO. Le parole di una meditazione di equanimità recitano così: TUTTI GLI ESSERI SONO I POSSESSORI DEL PROPRIO DESTINO. LA LORO FELICITA’ E INFELICITA’ DIPENDE DALLE LORO AZIONI; NON DA CIO’ CHE PER LORO DESIDERO. Corrado Pensa ne parla così: “L’equanimità è l’opposto dell’attaccamento, è non-attaccamento. È una dimensione determinante del sentiero interiore. Ovviamente, esistono diversi gradi di equanimità, ma anche un’aspirazione, una sincera aspirazione verso di essa è già un inizio di vera equanimità. Dunque, l’equanimità è l’anima del lavoro interiore, il cuore del sentiero, il cuore della realizzazione e dell’adempimento. L’equanimità è l’anima della presenza mentale che chiamiamo consapevolezza non-giudicante, cioè una consapevolezza che tende all’equanimità. L’equanimità è il cuore della saggezza, non si può guardare in profondità senza l’intimo equilibrio dell’equanimità. E l’equanimità è anche il nucleo più profondo dell’amore, della compassione, della gioia empatica”. POSSANO TUTTI GLI ESSERI RIMANERE QUIETI E TRANQUILLI DAL CONTINUO MUTARE DEGLI EVENTI.

Concludo queste riflessioni con un’antica preghiera gaelica: “Benedici o Signore, i miei occhi, che essi possano benedire tutto quello che vedono. Benedici o Signore, le mie orecchie, che esse possano benedire tutto quello che sentono. Benedici, o Signore, le mie mani, che esse possano benedire tutto quello che toccano. Benedici, o Signore, la mia faccia, che essa possa benedire ogni cosa”.

La disciplina crea il bene e il male  di Gianluca Del Cucina

Disciplina: questa parola deve essere ben interpretata. Cos’è la disciplina senza consapevolezza, se non una catena per un carcerato? La disciplina è una bussola che fa evitare gli estremi. Sofferenza e piacere, gioia e dolore eccoli gli estremi a cui corrisponde la realtà della nostra vita, una disciplina applicata senza consapevolezza alla nostra realtà rende la vita l’ombra di se stessa. Questa disciplina è frutto della paura.

Dobbiamo partire da quella che è la nostra realtà, adesso, così com’è. Questo significa entrare in contatto, riconoscere, accogliere pienamente nella nostra esperienza gli estremi della sofferenza e del piacere, del bene e del male. La consapevolezza non ha paura degli estremi.

Anche chi segue un sentiero che potremmo definire come “malvagio” sta seguendo una via che comunque è naturale. Il fatto stesso che esista il male in qualsiasi forma esso si manifesti, significa che ciò rientra nel campo delle possibilità, nel campo di ciò che è naturale, di ciò che la natura crea. Anche se ciò che crea significa la propria distruzione.

Come possiamo ammettere, però, che esista una natura malvagia che crea sofferenza, pena, distruzione, che addirittura miri all’autodistruzione?

Ammettiamo ciò nel momento in cui ammettiamo che esista il “bene”, ciò che è giusto, buono, morale. E’ la nostra mente che crea tutto ciò, o meglio è il pensiero che discerne, divide, giudica.

La consapevolezza che non ha paura può contenere tutto, anche gli estremi. Non siamo noi che attraverso la disciplina conteniamo l’esperienza, è l’esperienza che contiene tutto e per farlo non ha bisogno di alcuna disciplina, ma semplicemente di “essere”.

Non sto cercando di dare una giustificazione a tutte le brutture che affliggono il nostro mondo e la nostra vita, sto cercando di dire che solo andando oltre la dualità del pensiero, ossia la contrapposizione tra poli opposti, potremo ritrovare una mente capace di percepire l’unità essenziale della nostra natura originale.

Certo questa mente agli occhi profani rischia di essere qualunquista, oppure rischia di far crescere a dismisura l’ego pensando che qualunque nostra azione vada bene… c’è una frase di Suzuki-roshi che esprime perfettamente quello che penso in proposito: “Ognuno di voi è perfetto cosi com’è…e può solo migliorare un po’”.

Daigu Ryokan – Poesia

Quando il fiore si apre, viene la farfalla;

quando viene la farfalla, il fiore si apre.

Io non so niente degli altri;

gli altri non sanno niente di me.

Senza conoscerla, seguiamo tutti la Via.

Meditazione e Disciplina    da Krishnamurti

Egli aveva praticato per molti anni quella che chiamava la meditazione; aveva seguito certe discipline dopo aver letto molti libri sull’argomento ed era stato in un certo monastero dove si meditava per molte ore al giorno.(…) Disse che sebbene dopo tutti quegli anni la sua mente fosse sotto controllo talvolta tuttavia sfuggiva al controllo; che non c’era gioia nella sua meditazione; e che le discipline impostesi lo rendevano piuttosto duro e arido.(…) La retta meditazione è essenziale per la purificazione della mente, perché senza lo svuotamento della mente non può esservi rinnovamento. La semplice continuità è decadenza. La mente si avvizzisce per la ripetizione costante, la frizione causata per l’uso errato, le sensazioni che la rendono ottusa e stanca. Il controllo della mente non è importante; quel che è importante è scoprire gli interessi della mente. La mente è un fascio di interessi contrastanti e il semplice rafforzare un interesse contro un altro è ciò che noi chiamiamo concentrazione, il processo della disciplina. La disciplina è la coltivazione della resistenza, e dove c’è resistenza non c’è comprensione. Una mente ben disciplinata non è una mente libera, ed soltanto nella libertà che si può fare qualche scoperta. Ci deve essere spontaneità per scoprire i moti dell’io, quale che sia il livello a cui si trovi. Sebbene possano esservi scoperte sgradevoli, i moti dell’io devono essere messi in luce e compresi; ma le discipline distruggono la spontaneità in cui avvengono le scoperte. Le discipline inquadrano la mente. La mente si adatterà a cio a cui è stata allenata; ma ciò a cui essa si adatta non è il reale.

Le discipline sono mere imposizioni e quindi non possono essere mai mezzi della denudazione. Attraverso l’autodisciplina la mente può rafforzarsi nel suo scopo; ma questo scopo non è che una proiezione e così non è il reale. La mente crea la realtà a sua propria immagine e somiglianza e le discipline si limitano a dare vitalità a questa immagine.

Soltanto nella scoperta può esservi gioia, la scoperta di momento in momento dei modi dell’io. L’io quale che sia il livello a cui si trova, è ancora parte della mente. La mente non può pensare a qualche cosa che non sia parte di essa; non può pensare l’ignoto.(…) I moti dell’io sono rivelati nell’azione dei rapporti (Nota: cioè come l’io si rapporta con gli eventi esterni e interni.); e quando non siano confinati entro limiti ben precisi, i rapporti consentono l’opportunità di una rivelazione dell’io. I rapporti sono l’azione dell’io, e per comprendere questa azione ci deve essere consapevolezza senza scelta; perché scegliere significa intensificare un interesse contro l’altro. Questa consapevolezza è la sperimentazione dell’azione dell’io,  e in questa sperimentazione non c’è né lo sperimentatore né lo sperimentato (Nota: cioè unione completa tra azione e l’io che compie l’azione.). In questa modo la mente si svuota dei suoi accumuli; non c’è piu l’io. (…)La sperimentazione di questo processo integrale, unitario libera la mente dal suo dualismo. (…)Di conseguenza sogni e attività quotidiane sono più che mai un processo di svuotamento. La mente deve essere assolutamente vuota per ricevere; ma il desiderio di essere vuoti per ricevere è un ostacolo profondamente radicato (…).

C’è libertà quando l’intero essere, tanto il superficiale quanto quello nascosto, è purgato del passato. La volontà è desiderio; e se c’è la minima azione di volontà, il minimo sforzo di essere liberi, di denudarsi, allora non potrà mai esservi libertà, la totale epurazione dell’intero essere. quando tutti i vari strati della coscienza siano quieti, nel più assoluto silenzio, soltanto allora ci sarà l’incommensurabile, la benedizione che non è del tempo, il rinnovamento del creato.

Tratto da “La mia strada è la tua strada”  edit. Mondadori

Mi serve qualcosa Rodolfo Savini

Diamoci delle regole.

Spesso ce le danno gli altri, spesso ci vengono imposte, le interiorizziamo così profondamente che possono sembrarci “naturali”, ma anch’esse sono espressione del condizionamento. Sì è vero, tutte le regole sono un confine che protegge ma al contempo limita e toglie qualcosa. Ecco perchè le vogliamo infrangere, sentiamo che quel limite ci toglie la libertà di sperimentare, ci impone un moralismo tradito, vuole oscurare una parte dell’esistenza. Con il proprio rigore sortisce l’effetto opposto. Infrangere le regole è qualcosa che attrae, è la ricerca della trasgressione che ci apre oltre l’abitudine e il conformismo. Questa rivolta porta con sè, nel nuovo spazio che si crea, qualcosa di non risolto nel nostro  passato, da esperienze appena compiute per risalire lungo una sconosciuta catena di nascite e rinascite, verso un complesso  di relazioni profonde e insondabili.

Portiamo con noi le radici malsane di desideri, sentimenti, emozioni, aspettative vecchie come vecchia è l’umanità di cui siamo l’ultimo frutto. Poco cambia, di generazione in generazione lo stesso terribile frutto fatto di violenze, prevaricazioni e rancori. Li possiamo ancora scorgere dietro ai sorrisi ipocriti, dietro alle prepotenze egoiche, dietro all’ignoranza, dietro alla mia ignoranza. Chissà quando ci stancheremo di cercare questa “vecchia” libertà, eppure se non riusciremo a stancarcene, ad averne la nausea, avremo pochissime, anzi nessuna, possibilità di esprimere il senso e il valore prezioso della nostra nascita come essere umano, uomo e donna.

Quanto peso si è a accumulato sulla nostra coscienza. e non è solo quello di ieri. Nelle nostre piccole o grandi rivoluzioni, nelle loro motivazioni reali o apparenti ci dimentichiamo di una enorme rivoluzione che ancora ci attende, una vera insurrezione.  Dobbiamo avere il coraggio di sentirci noi stessi, io stesso, protagonista e responsabile di ciò che è accaduto nel passato, in tutto il passato, fin dai primordi, perchè è stato “l’io”, anche il mio “io” a farlo, avvallarlo, volerlo.

L’insegnamento del Buddha ci sollecita in questo senso, ci stimola ad accorgerci che in quello che viviamo oggi si manifesta l’energia di ondate di rinascite e rinascite, con il continuo rinserrarsi del karma, con il disconoscere la responsabilità delle mie azioni, con il vagare ignaro nel vortice del samsara, dell’ipocrisia, dell’ignavia e dell’ignoranza.

Ecco perchè ci serve una disciplina irremovibile, delle regole salde per venir fuori da questo pozzo in cui ogni coscienza viene risucchiata  dalla propria rassegnazione, dal rumore di parole vacue. Saranno ancora quelle regole chiare, universali e condivise da un lato, ma saranno al contempo del tutto diverse perchè andranno vissute con l’abilità di chi non conosce il proprio avversario, perchè male e bene saranno così mischiati tra loro che servirà sensibilità e intelligenza per discernere il giusto percorso. Ci servirà quella quiete interiore che sgorga dal raccoglimento, ci servirà l’abilità di percepire la ricchezza celata di ogni nostro passo. Occorrerà prendere atto di quanto male e di quanto bene abbiamo fatto, quanto ne abbiamo avvallato, quanto sostenuto.  Lungo questo percorso non ci serve essere “buoni” ci interessa essere responsabili, responsabili dei nostri fallimenti, di quelli degli altri, di quelli che la nostra umanità incompiuta si è resa responsabile nel corso di un passato insondabile. Ma al contempo responsabili di ogni sorriso regalato, di ogni mano tesa a chi ne aveva bisogno. Disciplina e regole che non negano, non si compiacciono, nè condannano ma riconoscano di che cosa sia capace la nostra umanità, la mia umanità, io.

Non ci sentiamo a nostra agio al cospetto della disciplina, di regole lì fisse, immobili, eterne, comandamenti o precetti che siano, credi o rifugi che siano. C’è qualcosa che non ci convince, qualcosa che manca. Suscitano rispetto ma incutono timore. Sembra che la loro forza sia proprio nel galleggiare sulla paura, sulla punizione, sull’inferno in cui cadere.

Noi abbiamo bisogno di regole che ci permettano di uscire anche da queste paure, serve un fondamento diverso su cui posare la forza direttrice della nostra esistenza.  Serve il coraggio di sentirsi responsabili di tutto, autori di tutto, del male commesso nel passato come del bene realizzato. Così potrò contribuire a creare pace tra l’uno e l’altro non dell’uno sull’altro. Queste regole non sono scritte da nessuna parte, non vi è alcuna disciplina cui uniformarsi se non  quella incisa nella nostra stessa vita proprio oggi, proprio in questo momento, ora. Riconosciamola, facciamola nostra e seguiamola con riconoscenza: il nostro passato ci ha legati, ma è esso stesso ora che ci sta insegnando ad essere liberi. E’ il karma che lega, è il karma che libera. Chiesero al maestro come si può fare il bene. Il maestro rimase in silenzio poi rispose: sono libero di fare il male, è per questo che scelgo di fare il bene.  Chissà se anche noi sapremo trovare in ogni respiro, in ogni passo la strada che ci possa far dire: che tutti gli esseri possano vivere liberi dalla sofferenza, sereni e in pace.

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