Il canto che sostiene l’universo – alle radici: le Upanishad (1)
Radici: le Upanishad, il canto che sostiene l’universo – Brihad-aranyaka-upanishad I,3
Con questo primo testo auspichiamo di dar vita al materiale raccolto con le nostre letture su questi antichi testi da cui prenderà avvio l’Induismo con i suoi ulteriori sviluppi, come, per citarne solo alcuni, il Buddhismo, il Vedanta, la Bhagavad Gita, gli Yogasutra. Riportiamo di seguito con semplicità il materiale raccolto soprattutto come condivisione, con chi lo leggerà, della passione per una ricerca di radici lontane. In questo primo momento ci soffermiamo a riportare solo i testi lasciando ad ognuno, come è stato per noi, lo spunto per un approfondimento, mentre per tutti, come per noi, auspichiamo che siano di stimolo per le risonanze che sollecitano. Ci scusiamo per le nostre traslitterazioni e per i lievi aggiustamenti operati. Il testo cui si è fatto riferimento è quello edito da Boringhieri nella Collana dell’Enciclopedia di autori classici diretta da Giorgio Colli: , i Upanishad, i primi testi indiani di filosofia
Le Upanishad rappresentano le radici di ogni spiritualità indiana, sono esse stesse espressione dei Veda, una raccolta di testi che travalica il tempo con radici un passato indefinibile. Questa Upanishad la Brihad-aranyaka-upanishad – Il grande breviario per gli asceti – a detta degli studiosi, è databile intorno al 700 a.C.
I,,3,1-27
Udgitha Il canto che sostiene l’universo
Il conflitto tra il bene rappresentato dai Deva e il male dagli Asura, nonché da Mrityu
Il canto del sacerdote
Intenzione e desiderio
Prajapati, il dio creatore.
(1) Duplice è la stirpe di Prajapati: i Deva e gli Asura. Essi si contesero questi mondi. I Deva allora così dissero: “Suvvia dominiamo gli Asura nel sacrificio mediante l’udgitha”. Ed essi dissero alla Parola (Vac) : “Canta per noi l’udgitha”. “Così sia” e la Parola cantò per loro. Ciò che nella parola vi è di godimento essa lo procurò, cantando agli Dei ciò che vi è di bontà lo procurò a se stessa. Gli Asura allora conobbero: “In verità mediante questo canto essi finiranno per dominarci”.Gli si precipitarono addosso e lo trafissero con il male. Il male è tutto ciò che viene detto di non pertinente all’oggetto, senza costrutto. Proprio questo è il male.
E lo stesso avvenne per lo Spirito vitale (Prana), per la vista, per l’udito, per la mente (manas), ma quando toccò all’ “essenza vitale del corpo intero in tutte le sue membra” allora
gli Asura conobbero: (6) “In verità, mediante questo udgitha essi finiranno per dominarci.” Gli si precipitarono addosso e tentarono di trafiggerlo con il male. E così, come una zolla di terra urtando contro una pietra si sbriciola, ugualmente costoro si sbriciolarono, sparpagliandosi in tutte le direzioni.
Mrityu, il dio della morte, viene così sconfitto e
(8) resta lontano da colui che così conosce.
Da qui la recitazione del sacerdote, il suo canto, il suo udgitha:
(27)
“Dal non essere fammi andare all’essere,
dalla tenebra fammi andare alla luce,
dalla morte fammi andare all’immortalità.”
a-sato ma sad gamaya,
tamaso ma jyotir gamaya,
mrityor ma amritam gamaya”
Allorché il cantore dice “dal non essere fammi andare all’essere”, la morte in verità è il non essere, l’essere è l’immortalità: “fammi andare dalla morte all’immortalità”, “fammi immortale” questo è in realtà ciò che egli dice. Allorché egli dice “dall’oscurità fammi andare alla luce”, la morte in verità è la tenebra, la luce è l’immortalità: “dalla morte fammi andare all’immortalità”, “rendimi immortale”, ecco ciò che gli dice. Allorché egli dice “dalla morte fammi andare all’immortalità”, non vi è nulla di nascosto, tutto è chiaro. Quanto agli altri canti cantandoli, può ottenere per sé l’alimento: pertanto, allorché li canta, deve porvi una intenzione che corrisponda all’oggetto del desiderio. Il cantore che così conosce ottiene, sia per sè sia per colui al quale offre il sacrificio, l’oggetto che desidera.