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Lungo il sentiero dell’umiltà

Il discorso della condotta morale  - Suttanipata – La raccolta dei discorsi 21 (2.9)

Quale condotta morale un uomo deve avere, quale pratica deve svolgere,
quali azioni deve promuovere, per essere rettamente stabile, per ottenere la suprema meta?
Costui onori le persone più anziane e non provi invidia,
conosca il giusto momento per incontrare i maestri.
Avendo capito qual è l’occasione adatta, il discorso sul Dhamma che viene proferito e i racconti egli deve ascoltare attentamente.
Vada alla presenza dei maestri nel momento giusto,
avendo abbandonato l’ottusa pervicacia, con un atteggiamento di umiltà;
la meta, il Dhamma, l’autocontrollo e la vita pura
egli ricordi e pratichi.
Sia lieto nel Dhamma, si rallegri nel Dhamma,
sia saldo nel Dhamma, conosca l’esegesi del Dhamma,
non dica parole che siano nocive per il Dhamma,
sia guidato da veraci racconti.
Lasciando da parte la derisione, il mugugno, il lamento, l’odio,
l’inganno, la brutalità, il peccato e l’infatuazione,
vada egli privo d’orgoglio e saldo interiormente.
Dei racconti l’essenza è stata compresa:
quello che è stato ascoltato, quand’è compreso, contiene l’essenza della concentrazione.
Non cresce né saggezza né apprendimento
per quell’uomo che è avventato e negligente.
Coloro che, invece, sono lieti nel Dhamma proclamato dai nobili,
sono senza superiore nella parola, nel pensiero e nell’azione.
Saldi nella pace, nell’umiltà e nella concentrazione
costoro hanno ottenuto l’essenza.

 

Lungo il sentiero dell’umiltà di  Rodolfo Savini

Per comprendere il sentiero dell’umiltà è opportuno metterla a confronto con i suoi molteplici contrari. E’ così delicata la sua definizione che può facilmente debordare verso il fraintendimento, se non proprio verso l’ambiguità.

É necessario quindi liberare il campo da questi equivoci. Prima di tutto dobbiamo essere certi  che in essa non siano presenti i semi nascosti dell’arroganza.

Entriamo quindi nell’arroganza per conoscerne la forza e il volto, per addestrarci a mantenere saldo il timone della ” rettitudine”.

Siamo soliti dare al termine ‘arroganza’ un significato negativo. L’arroganza sfocia nella presunzione che chiude la relazione con l’altro, soffoca la disponibilità all’ascolto, l’apertura alla sensibilità. Questa arroganza, divenendo presunzione, sfocia nel fanatismo, sia nella sua manifestazione egoica, sia in quella, ancor più minacciosa, di un gruppo, di una comunità, di una setta.

Ecco allora che l’ego o una comunità arrogante si pregiudica l’incontro con le virtù proprie ed altrui. La sua energia corre sull’onda dell’incomprensione che facilmente conduce alla violenza, allorché non venga messa in discussione. Quindi l’arroganza, egoica o collettiva che sia, conduce alla presunzione e alla superbia, al sentirsi ‘padroni’ della verità, della saggezza o il altri termini ‘signori’ della propria ignoranza che chiude la porta al confronto.

E’ chiaro che dietro a questo atteggiamento

vi è non solo la negazione dell’umiltà, ma la solitudine di un io che si sorregge sul terreno minato delle proprie avversioni, più che delle proprie certezze; o di una comunità che, facendo lo stesso, si consolida solo nel suo “contro” più che nei propri valori. Questa identificazione della verità con l’arroganza rende assai fragile la nostra consistenza. Il senso di sé capitola insieme a quello del proprio nemico. Entrambi si sorreggono l’un l’altro, entrambi sono privi di umiltà, entrambi sono lontani dal leggero sostegno della verità. L’effetto è inevitabilmente il conflitto.

L’arroganza si consolida soprattutto nel confronto/conflitto con gli altri ma, in senso meno evidente, con la natura stessa di cui si sente ‘padrona’. Quest’ultimo rischio è presente ogni momento e il buddhismo cerca di superarlo considerando che tutte le forme di esistenza sono partecipi della nostra medesima esperienza vitale. Anch’esse traggono beneficio dalla nostra umiltà.

Come fare a contrastare la prepotenza dell’arroganza senza cadervi dentro, come è possibile consolidare l’umiltà in modo tale da renderla uno spazio inusuale in cui l’arroganza si spegna? Questo è l’arduo percorso di quei monaci che vivono nel più completo abbandono, nella più completa comprensione che tutto, così come accade, è travolto dall’impermanenza. Vale a dire dalla comprensione che ciò che nasce è desinato a perire e il nostro io-padrone non ne è esente. Su che cosa può poggiare allora il nostro ego? E’ un impegno arduo da consolidare. L’arma dell’umiltà e dell’arrendevolezza hanno bisogno del terreno fertile di una profondo incontro con la vita. In casi estremi prende forma in quei monaci che giungono, per protesta contro l’arroganza, a darsi fuoco loro stessi per risvegliare negli altri il senso di una pace umile, disposta all’accettazione e alla convivenza pacifica, a lasciare la propria vita più che toglierla agli altri.

L’arroganza può essere però anche un veicolo verso una umiltà matura. E’ quell’ “umiltà del forte”, come dice Gandhi,  che sa accettare il conflitto ma che, allo stesso tempo, sa accogliere e cedere, in virtù dell’amore e della pace. Ben diversa dalla “umiltà del debole” pervasa da ambiguità, timori, paura  e viltà. Spesso l’umiltà del debole ama apparire silenziosa e avvilita, mentre cela nel suo intimo ambizione e invidia. L’ipocrisia ne diviene il sostegno.

Nell’umiltà del forte l’arroganza è la capacità di tenere salda la mano al timone della propria ricerca di pace e di verità. E’ una virtù che non

distingue tra interiorità ed esteriorità. E’ la fonte dell’apprendimento. E’ una energia silenziosa che sa diffondersi con la stessa saggezza dell’acqua. L’abilità consiste nel saper costruire gli argini che la possano indirizzare, sviluppare e accrescere.

Si manifesta nella capacità di sedersi alla destra del “maestro”, con qualsiasi volto esso si manifesti e farsi ”discepolo” di questa esperienza. Riconoscere che quest’altro “volto” della vita richiede l’abilità di coltivare una volontà buona, una “arroganza” umile. Se mi addormento lungo il percorso ecco comparire nuovamente l’umiltà del debole che facilmente sfocia nel conformismo, dalla ripetizione che spegne l’entusiasmo di guardare oltre il conosciuto, di aprirsi al non-conosciuto.

Con l’umiltà si apprende, ma con ”l’arroganza” si agisce. E’ questa una arroganza che non disdegna di assumere momento per momento le sembianze dell’umiltà, ma momento per momento ha la tenacia di alimentare questa luce che guida. Il maestro è la vita e la nostra coscienza è una discepola fedele e umile che ne apprende  l’insegnamento e con determinazione è responsabile del proprio essere, del proprio fare.

La coscienza sa che l’umiltà non risiede nel soccombere ma nell’essere nuovamente partecipi di questo inesorabile gioco del vivere. Il maestro è il grembo in cui cresciamo ed al contempo è l’energia da rianimare proprio con la nostra umiltà. L’umiltà buona non è altro allora che un’arroganza buona. E’ la disponibilità radicale di farsi vuoto davanti al bene, davanti a ciò che colma il senso della nostra esistenza, e a farsi solido, come una roccia,  davanti a ciò che la nega. Ecco nuovamente l’inganno, è l’umiltà stessa a pervadere questa roccia e a renderla solo un pugno di sabbia nella mano del saggio.

 I costruttori di canali

convogliano il flusso dell’acqua.

Il fabbro forgia le frecce.

Il falegname lavora il legno.

Il saggio doma se stesso.

 dal Dhammapada v. 80

 

Chi sono io? Umiltà e insostanzialità dell’io

di Corrado Pensa

La penetrazione intuitiva (…) è, semplificando all’estremo, l’intuizione del carattere insostanziale dell’io e delle cose: intuizione che può solamente venire

da una radicale purificazione interiore dell’individuo e che significa, simultaneamente, pienezza di luce e di liberazione. Ma, ci chiediamo, l’umile vero non ha, per definizione, superato l’io? E allora che grado di realtà ha questa cosa che si può superare? O non è per caso l’io, una illusione, quella più profonda, condizionante e separante e quella più gravida di conseguenze? E se cogliamo “con tutta la mente e con tutto il corpo”, per usare il linguaggio dello Zen, l’illusorietà dell’io, cogliamo anche ciò che quella illusione celava, la luce risanatrice della saggezza.

Ora, a proposito di tutto questo, viene da pensare che il buddhismo, pur senza porre l’umiltà al centro del cammino interiore, come fa la spiritualità cristiana, tuttavia vi alluda inequivocabilmente tutte le volte che parla di superamento della credenza-attaccamento a un io. E chi infatti, se non il vero umile, ha superato la credenza-attaccamento all’io, tornando così con i piedi per terra, seconda l’etimologia della parola umile? A me sembra, per quello che ho capito dell’umiltà e del buddhismo, che la dottrina buddhista dell’insostanzialità è  anche un contributo profondo e originale su come vede le cose il vero umile, ossia l’unico ad essere in grado di vivere realmente nel presente.

Da Una tranquilla passione Ed. Ubaldini, 1994 p.225

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