Trimle apr – sett 2007 n° 2-3 Anno IX
INDICE:
La malattia vista da dentro - di Rodolfo Savini
Tornare all’origine di Luciana Favorito
Due iniziative: Scuola di lingua madre e Conferenze
La malattia vista da dentro 20 settembre spunti introduttivi
Quando la malattia vuole tutto
di Rodolfo Savini
Nella malattia, soprattutto quando essa sembra non dare più spazio, avvertiamo la nostra solitudine e in essa ci confrontiamo, anche solo per brevi istanti con tutto ciò che vi è di sospeso e che rimbomba ovunque dentro di noi. Ricordi, rimpianti, amarezze, desideri, aspettative, passato e futuro, “tutto insieme” risuona qui, senza scampo. In questa dimensione siamo immersi tutti, io che sono malato, di una malattia che sembra senza riscatto, sia chi mi è vicino.
Io sono lì, dove il mondo si chiude e le parole si accorciano, chi mi è vicino lo vedo scosso dalla sua incapacità di “stare” con questo mondo ridotto ad un pugno di respiri. E’ il dramma di una libertà, che da un lato appare ormai smarrita mentre, dall’altro, si accontenta di esprimersi nella superficialità di gusti, preferenze, abitudini di frequente senza spessore.
Chi mi accompagna in questi momenti, con la sua presenza o con il suo pensiero, vive con me questo turbinio emotivo. Vive il paradosso di essere con me su questo valico mentre è, al contempo, pervaso da molteplici attività e impegni, da quella forte l’energia che va altrove e che le esperienze stanno ancora forgiando. La sproporzione tra malattia e salute non può soffocare l’una a scapito dell’altra. Occorre riconoscere con lucidità e chiarezza quel filo sottile di luci e di ombre che corre tra il partecipare e il condividere da un lato e l’essere estranei e separati dall’altro. Non riusciamo ancora ad entrare in quel mondo in cui la serenità avvolge entrambi; la serenità di poter finalmente guardare con intensità il senza-tempo laddove, per strade diverse, l’esperienza ci vuole condurre. E’ vero però che io sono qui, al cospetto di quell’attrito tra rifiuto e rassegnazione. Non vorrei essere in questa stanza, non vorrei essere legato a questo letto, avrei ancora “tante” cose da fare eppure tutto questo mi è precluso, tutto di me dipende sempre più dagli altri, mi accorgo di essere solo un “disturbo” e un “peso” per chi mi è vicino. Quell’astio e quella rassegnazione che mi feriscono, quella incolmabile estraneità e incomprensione di colui che mi è vicino sono l’ultimo velo da dissipare, allora la malattia e la salute potranno riconoscersi, comprendersi, accogliersi; è lì che sgorga la libertà. La mia libertà di ritirarmi senza rimpianti, la sua libertà di essere presente alla vita. L’intensità di questa scintilla potrà far sbocciare ciò che è nascosto nella rassegnazione e nell’estraneità: la paura soffocante potrà divenire l’esperienza e la scoperta di qualcosa di radicalmente nuovo. Il linguaggio dell’accoglienza di ciò che accade a me e a lui potrà esprimersi in una carezza, in un sorriso, in uno sguardo, in una reciproca presenza che riappacifica. Allora non ci sarà più nulla di non detto, quella paura che divide diviene quella comprensione che unisce, che unisce a tutto. Quando la mia porta si chiuderà e chi mi è stato vicino tornerà a casa non potrà dimenticare ciò che ci siamo detti: torna a casa sereno perché mudita, la gioia condivisa, guiderà con sicurezza i nostri passi.
Tornare all’origine di Luciana Favorito
20 settembre, spunti introduttivi
Mi trovo in lungo periodo caratterizzato da sofferenze legate a fatti e lutti che hanno turbato profondamente la mia vita e la percezione che ho di me stessa. Sono ancora in alto mare, spesso aggrappata e avvolta da onde tempestose, nonostante avessi creduto di aver salpato ormai quelle più profonde, e di aver impresso definitivamente nel mio cuore il carattere impermanente delle emozioni e del dolore. Malgrado non sia affatto difficile vedere la vacuità delle cose del mondo fenomenico, e sebbene molte volte ci è data la possibilità di gustare il sapore autentico della libertà che sgorga dall’inconsistenza della mente “cogitans” , nonostante tutto ciò, la tendenza a percepire la realtà interna ed esterna come un riferimento all’”io”, è tenace e permane. Quando ci accorgiamo di questo, ci rammarichiamo con noi stessi, poiché ci sembra che i nostri sforzi siano vani.
Possiamo notare come la stessa delusione nei confronti di noi stessi e l’insoddisfazione che segue al giudizio negativo, siano essi stessi il riflesso di questa tendenza, una rifrazione quasi invisibile del nostro continuo aggrapparci a un’ “entità” e ad un “fondamento” del tutto irreali. Eppure, se sappiamo rilassarci nell’emozione negativa e ci lasciamo accogliere da un sentimento di fiducia e accettazione, allora, da uno spiraglio di luce, possiamo scorgere che nemmeno “ la stanza dei doveri e dei ragionamenti su come dovrei essere ” è reale, e che, sebbene continuiamo a riferirci all’insieme degli “aggregati” come ad un “fondamento” che dirige e manovra la nostra vita, in realtà la nostra comprensione del Dharma si dilata impercettibilmente ora dopo ora, giorno dopo giorno.
Ad ogni puerile attaccamento segue un prezioso risveglio.
Questi frammenti di risveglio, sono le gemme che ornano i nostri sforzi sinceri e la devozione che mettiamo nel voler “essere” e incarnare il Dharma. Ciò è precisamente l’obiettivo e lo scopo della nostra vita. Cercare la verità in noi stessi equivale a cercare il Dharma, e cercare il Dharma ci porta nel sentiero giusto, quello dell’autentica libertà.
Spesso, quando la frustrazione, il senso di colpa e d’impotenza (che accompagnano il rapporto conflittuale con mia madre gravemente malata) sembrano dominarmi, ritornare con l’autoriflessione all’origine delle cose e dell’essenza stessa della vita, lasciando emergere in superficie lo scopo della vita che si manifesta, mi apre il cuore sciogliendo la presa dell’attaccamento. Da qui, da questo luogo di riflessione che percepisco come una vetta, si apre lo spazio infinito del Dharma sservare la mente ed essere di beneficio per gli altri.
Allora, quando di nuovo lo scopo della mia esistenza risplende in tutta la sua chiarezza, posso sperimentare la gioia di “essere” semplicemente; non mi sperimento più come contenitore di fenomeni gradevoli e sgradevoli in cerca di un senso, di un ruolo, e di un posto nel mondo del “samsara”. “Essere”, semplicemente, può diventare il porto dove attraccare la nave, dove riposarci e tirare un sospiro di sollievo. Qui, in questo luogo, la vita “ è “ di per sè un senso. Questa percezione alleggerisce il nostro cuore, aprendoci alla vita, a noi stessi, agli altri e alla compassione. Se il dispiegarsi della vita così com’è e come si manifesta, diventa essa stessa un senso e uno scopo, allora non siamo più costretti a lavorare per conto del nostro “io” per portare qualcosa dentro di noi, stabilendo un confine di territorio tra noi e fuori, tra noi e gli altri, e ad affannarci per accumulare qualcosa (il senso della vita, il posto da occupare nella società, ecc.) da mettere all’interno di questo contenitore, poiché questo confine tra noi e fuori non lo percepiamo più. Non ci sono più muri che separano L’io e il tu, tutto è fuori e tutto è dentro contemporaneamente. Quello che ci serve e di cui abbiamo bisogno è nello stesso tempo fuori e dentro. Abbiamo bisogno degli altri come gli altri hanno bisogno di noi.
In questa terra senza confini e senza ”fondamenti”, la nostra mente è topograficamente organizzata in un unico spazio-tempo, in cui l’orizzonte non è altro che la luce riflessa della nostra energia in libertà .
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Quest’anno la nostra Associazione è riuscita a dar vita a due iniziative molto belle che, una volta avviate, ci sono sembrate da sempre le “nostre”:
(1) Lezioni domenicali di lingua per i bambini e i giovani: Sri Lanka:
un lingua da far vivere, una cultura da conoscere, un mondo da condividere
(2) Ciclo di incontri ad Arezzo presso l’Autitorium adiacente la Sede del Comune, sui temi di cui riportiamo qui sotto gli spunti introduttivi.
Un ringraziamento particolare va a coloro che hanno sostenuto con la loro presenza e il loro interessamento questi incontri
Sri Lanka:
un lingua da far vivere, una cultura da conoscere,
un mondo da condividere.
Quest’anno, nel primo pomeriggio di ogni domenica, abbiamo aperto una scuola: insegnare ai nostri figli la lingua del nostro Paese. In Sri Lanka alcuni di loro non sono ancora stati, altri hanno solo vaghi ricordi. A casa facciamo del nostro meglio per parlare ma la conoscenza della lingua rimane orale e limitata alle parole d’uso quotidiano. Perché allora non aprire una scuola per loro? Così abbiamo fatto, l’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo ci ha dato il suo appoggio. Nel locale di Piaggia del Murello ci siamo ritrovati con i nostri ragazzi che hanno ripreso a studiare.
Un prossimo anno ci piacerebbe chiedere ai loro compagni italiani se desiderano venire anche loro. Scrivere, leggere, conoscere è imparare ad esplorare ed è ciò che i giovani spesso dimenticano o che cercano in direzioni sbagliate.
Divisi un piccoli gruppi sono stati guidati in questa loro nuova attività da alcuni giovani che ben conoscono la nostra lingua e che si sono avvalsi del materiale e dei suggerimenti di esperienze precedenti, come quella del Samadhi Vihara di Firenze che già da anni ha avviato un progetto in questo senso. Mentre al piano di sopra i giovani erano “a scuola”, al piano terra ci siamo trovati noi genitori. Sui tavoli già pronte le merende per la fine della lezione e intanto è l’occasione per ritrovarci, per consolidare la nostra amicizia e per chi lo desiderava, per praticare la meditazione così da ravvivare un aspetto centrale della tradizione buddhista. Abbiamo approfondito, in un confronto comune, la conoscenza del dharma. Una scuola quindi a due livelli, per i giovani e per i genitori, accomunata dall’esigenza di ravvivare la conoscenza e la pratica della lingua, delle tradizione e dell’insegnamento del Buddha.