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Trimle apr – giu 2002 n° 2 Anno IV

 

 

  • Dal Visuddhi Magga
  • Lavorare con le emozioni (Massimilano Foglini )
  • Gli appuntamenti … 
  • Riflessioni a più voci sulla “Seconda Nobile Verità”(a cura di Rodolfo Savini)
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    Dal Visuddhi Magga…

    Le menti ferme e stabili dei grandi esseri, desiderando il bene di tutti gli esseri, desiderando che gli esseri non soffrano, desiderando aiutare e mantenere le realizzazioni favorevoli conseguite, mantenendosi imparziali nei confronti di tutti, non fanno distinzioni del genere: “A costui si deve dare, a quest’altro non si deve dare”.

    Essi elargiscono a tutti doni che sono fonte di felicità.

    E per evitare di far del male, praticano la disciplina morale, praticano la rinuncia.

    Per evitare la confusione tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, purificano la loro comprensione.

    Hanno sempre grande energia per il benessere e la felicità degli esseri.

    Avendo acquisito un’eroica forza d’animo grazie al dispiego della suprema energia sono pazienti con i molti errori degli esseri.

    Quando promettono: “Ti daremo questo, faremo quello per te”, non ingannano.

    La loro risoluzione di perseguire il benessere e la felicità degli esseri è inamovibile.

    Con ferma benevolenza collocano sempre prima di se stessi il prossimo.

    Con perfetta equanimità, non aspettano mai ricompensa

      

    Lavorare con le emozioni 

    di Massimiliano Foglini

     

    Dennis Genpo Merzel, Maestro Zen americano, in un suo insegnamento dice: Se, quando sediamo, ripudiamo determinate sensazioni, determinati pensieri, determinate emozioni, determinate idee e ci attacchiamo a ciò che riteniamo bello e creativo, riporteremo nella vita esattamente lo stesso atteggiamento. Ameremo determinate persone a cui ci attaccheremo, disprezzando e rifiutando le altre. Se invece diventiamo come l’ampio spazio, non c’è più scelta e preferenza. Tutti sono uguali, tutti sono il riflesso di noi stessi. E questo ci consente di incominciare ad apprezzare le diverse qualità di ciascuno, la bellezza che è in tutti.Come ci comportiamo quando si presenta una forte emozione quale potrebbe essere la rabbia, ma anche l’invidia, la gelosia, la paura… (e chi più ne ha più ne metta)?

    Merzel parla di ripudiare determinate sensazioni-emozioni-pensieri. Tendiamo a ripudiare, cioè ci rifiutiamo di riconoscere un aspetto della nostra vita emotiva. Possiamo addirittura giustificare la nostra avversione per gli stati mentali ‘negativi’ definendola come un passaggio evolutivo: “Abbandonerò tutta questa rabbia per superare l’io-mio!” Ripudiare alcune qualità che consideriamo non salutari, prenderne le distanze, non fa altro che rafforzarle, potenziarle. Proprio il nostro “cercare di abbandonare” le emozioni negative fa sì che rimaniamo identificati con esse.

    Un’altra tipica maniera di rapportarsi all’emozioni è quella di credere che debbano per forza essere espresse. Viene fuori un grande carico di rabbia e la prima cosa che pensiamo è in quale maniera buttarla fuori. Cerchiamo il responsabile di questa rabbia e gliela scarichiamo addosso; se non lo facessimo qualcosa dentro noi si sentirebbe tradito. Il solo pensiero di “osservare senza esprimere” la rabbia ci dà l’impressione che così facendo questa rabbia ci mangerà da dentro, ci corroderà creando ancor più tensioni e confusione… altro che consapevolezza!

    Se poi decidiamo di non buttarla fuori… allora è meglio far finta di niente: “Io non ci metto le mani; tanto è tutto un’illusione; tutto passa”. Dall’esprimere passiamo al suo opposto che è il reprimere. Le emozioni allora, affondano negli abissi dell’inconscio e di lì ci manovrano: reagiamo impulsivamente ai vari stimoli senza sapere neanche bene il perché.

    Esiste una maniera di vivere le emozioni che non sia il reagire ad esse o il reprimerle? Certo, e l’insegnamento del Buddha ne è maestro: “E in che modo dobbiamo dedicarci alla contemplazione della mente? Riconoscendo la mente dotata di brama come dotata di brama; riconoscendo la mente priva di brama come priva di brama; la mente offuscata dall’odio come offuscata dall’odio; la mente priva di odio come priva di odio; la mente distorta dall’illusione come distorta dall’illusione, la mente priva d’illusione come priva d’illusione; la mente trattenuta come trattenuta; la mente turbata come turbata; la mente sviluppata come sviluppata; lo stato mentale non evoluto come non evoluto; la mente superabile come superabile; la mente insuperabile come insuperabile; la mente concentrata come concentrata; la mente non concentrata come non concentrata; la mente liberata come liberata; la mente non liberata come non liberata“.

    Non reagire, non reprimere ma osservare attentamente, non reattivamente gli stati mentali. Ecco che grazie ad una introspezione calma e spassionata di quello che passa nella mente sviluppiamo una preziosa autoconoscenza di noi stessi ed una capacità impagabile di riflessione prima di agire, capace di disinnescare i modelli di abitudini non sane che si sono instaurati nel nostro comportamento.

    Mark Epstein descrive questa pratica così: “Il Dalai Lama inizia ogni suo discorso descrivendo come gli esseri umani desiderino la felicità, e come l’unico scopo della pratica spirituale sia rendere reale quella felicità. La strategia del concentrare l’attenzione sull’”io” che si manifesta nei momenti della ferita narcisistica non è altro che l’esempio avanzato di un metodo di cui la via buddhista fa grande uso: quello di ricercare continuamente soddisfazioni più mature.[...] Negli insegnamenti buddhisti, la capacità di contenere un’emozione nello spazio transizionale della nuda attenzione è sempre descritta come più soddisfacente e più completa delle strategie della negazione o dell’indulgenza“.

    Accettare le emozioni così come sono, riconoscere di esserci coinvolti è più soddisfacente che rimuoverle, controllarle, esprimerle, rifiutarle. La nuda attenzione ci permette di spostare l’attenzione dall’emozione all’identificazione con essa, dalla reattività emotiva alla consapevolezza non giudicante. Questo ci permette di fare una scoperta fondamentale: dietro alle emozioni non si nasconde nessun sé: il sé è un’invenzione!

    La principale illusione, che poi influisce su tutta la nostra vita, è la certezza che esista un ‘io’ (un sé, un ego), consistente e ben distinto dalle altre cose. In verità, ciò che chiamiamo ‘io’, non è altro che una sensazione derivante dalla nostra identificazione con i vari processi del pensiero. Il ‘senso del sé’ si nutre di pensieri tipo: “Io sono questo. Io sono quello. Vorrei essere così. In questo non mi ci riconosco. Eccetera” (Per avere altri esempi è sufficente osservare attentamente la propria mente!). La pratica della consapevolezza, la nuda attenzione ci mette in contatto direttamente e semplicemente con le varie esperienze: vedere, toccare, udire, odorare, toccare… e dietro a tutto ciò non c’è un sé separato. Anche i pensieri, le emozioni sono prive di un sé. Non ci rimane altro da fare che vivere direttamente ogni istante, pienamente, lasciando andare la nostra illusione di essere altro da tutto questo

    Tutti, anche le persone più orribili, hanno qualche bellezza, qualche bella qualità, così come ogni bellezza ha sempre un lato di bruttezza. Basta vivere con un altro per scoprirlo. Tutti scoreggiano, tutti cacano, tutti puzzano. C’è una storiella. Una donna porta a casa due scimmie e un cane, e li installa in camera da letto. Il marito trova da ridire: “Ma come facciamo con l’odore?”. “Non preoccuparti”, risponde la moglie”. “Come mi sono abituata io, si abitueranno anche loro”.

    Riflessioni a più voci sulla “Seconda Nobile Verità” giornata di meditazione alla Pagoda – 24 feb. 02

    Sintesi a cura di Rodolfo Savini

     

     

    Nell’ascoltare gli insegnamenti di Buddha sulla causa del disagio verso il quale scivolo, mi sembra inaspettatamente di ritrovare per la prima volta considerazioni che già da tempo avevo incontrato. Incontrarle durante la lettura tra una seduta e l’altra mi ha permesso di guardarle con una nuova attenzione. L’identificazione con i propri desideri: ecco l’ostacolo da superare, nei loro confronti si tratta di trovare un modo completamente diverso di vederli. Non c’è più la reazione immediata, occorre scoprire lo spazio che si può creare tra i desideri e il loro soggetto. Non sono più succube di questa propensione a prendere o respingere, ma riesco a riconoscere e contemplare il desiderio. Tra l’attaccamento che mi spinge a volerlo realizzare e il rifiuto che mi porta a volerlo sradicare, vi è lo stare a contemplarlo, guardarlo per quello che è, come qualcosa che passa, che scorre, che non permane.

    La radice del desiderio è in ognuno di noi e dobbiamo imparare a conviverci. Talvolta, attaccato ai miei desideri, mi sembra di essere perfetto, sono ricchi di sfaccettature e anch’io mi sento così. Se tentassi di reprimerli li farei diventare ancor più pressanti. Mi sembra meglio farmi muovere da loro così come sono più che nutrire aspirazioni irrealizzabili, più che alimentare “desideri di spiritualità” che suscitano solo della frustrazione. Meglio non nutrire queste aspirazioni e convivere con le onde, così come il vento le spinge.

    Alla radice del desiderio vi è il caotico pulsare delle emozioni. Desiderio ed emozioni sono i compagni della mia giornata. Non guardo alla qualità che li caratterizza, se sono più o meno “spirituali”: sto imparando a contemplarli. Solo in questo modo non affondano nell’inconscio, né divengono incessante carburante dell’azione condizionata. Qui assume pieno significato la pratica che è intermedia tra il rifiutare e l’assecondare: è il contemplare. In passato avvertivo il disagio ad accettare la presenza del desiderio: dovevo reagire facendo qualcosa, rifiutandolo o esprimendolo. Ora sto imparando a contemplarlo.

    Il peso dei desideri risiede nel fatto che sono loro ad essere i protagonisti del mio comportamento. Sono loro schiavo, mentre penso erroneamente di esprimere la mia libertà.

    Un rapporto che costituisce un interrogativo non risolto è quello tra desiderio e volontà. Per me questi due termini non sono sinonimi, con loro indico qualcosa di diverso. Siamo qui perché c’è desiderio di cambiare o perché c’è volontà di cambiare? Con volontà intendo la determinazione con cui Buddha è rimasto seduto ai piedi dell’ “Albero dell’Illuminazione” finché non fosse giunto a comprendere: “Questo è il dolore; questa è la causa del dolore, questa è la cessazione del dolore; questa è la via che vi conduce”.

    La volontà potrebbe indicare forse il desiderio più elevato, proprio quello che non è caratterizzato dall’attaccamento egoico. E’ importante però fare qualcosa senza desiderio, ma fare.

    Impariamo a distinguere l’azione dalla reazione. Mentre la prima mi indirizza verso la pace, con la seconda si acuisca la mia sofferenza. Il mio comportamento è caratterizzato dalla domanda: ciò che faccio porta alla felicità mia e degli altri? O, al contrario, crea infelicità a me e agli altri? Mi capita di frequente di rinunciare a molti desideri, perché posso causare infelicità agli altri. Rinuncio liberamente, non attuo, nei loro confronti, una repressione.

    Non dobbiamo però partire, nel dare senso alla nostra azione/reazione, dal voler compiacere gli altri. È importante che la dimensione egocentrica sia ben definita. Sapere che qualcuno mi riama, toglie spessore a quella quotidianità tappezzata di desideri. Qui si inserisce l’attenzione alla pratica e il coltivare la contemplazione. Desideri e avversioni producono su di me molteplici effetti. Sostenere l’equanimità è una pratica necessaria e basilare per superare desideri, sarà lei a permettermi di apprendere a contemplare desideri e reattività.

    Occorre partire da sé, anche se ciò produce disagio agli altri, spesso infatti gli altri hanno bisogno del nostro disagio per crescere a loro volta.

    Se questo vuol dire però che io sono posto su un piedistallo vuol dire che ciò non va bene. Gli altri sono sempre io. Occorre coltivare un atteggiamento lenitivo verso gli altri. Facendo qualcosa per gli altri c’è già un immediato ritorno, vi è una compartecipazione paritaria: un contemporaneo dare e ricevere.

    Mi chiedo quale natura abbia il desiderio, quale differenza distingua il desiderio dalla volontà, la reazione dall’azione. Sento il bisogno di alimentare la mia volontà coltivando il mio ego in vista di un servizio da rendere agli altri.

    Se voglio provare a distinguere azione da reazione potei aggiungere che l’azione è espressione di un desiderio sano mentre la reazione tradisce una sottaciuta paura. Avverto però che in ogni relazione c’è dualità, ci sono io e gli altri. Al centro di tutto c’è l’individuo.

    Mi sembra che però si possa andare oltre a questo dualismo tra io/altri. L’esperienza buddhista mette in risalto come tutto sia collegato e interagisca. La foglia è composta da elementi che sono non-foglia: il sole, l’acqua ecc. senza i quali non ci sarebbe la pianta.

    Dobbiamo stare in guardia davanti ai discorsi inutili, con i quali ciascuno si rotola e si ripiega nelle proprie nevrosi. Agire è per me fare la cosa giusta al momento giusto, allora agendo farò sempre la cosa giusta.

    Quando avverto sofferenza che cosa faccio? Come mi relaziono a questo peso? Ne potrei parlare o devo tacere perché non riguarda gli altri?

    Alcuni discorsi possono essere inutili quando si scivola sul teorico, quando si coltiva il ragionamento e si alimenta troppo l’attività mentale. Bisognerebbe parlare di sé, è proprio questo quello che dobbiamo fare.

    Dobbiamo partire dalle nostre possibilità. Ognuno di noi deve fare del proprio meglio.

     

    Tutto quello che ha la natura di apparire,quello stesso ha la natura di cessare”

    Majjhima-nikaya, III

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